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Se mi chiedessero “dove hai incontrato Dio” risponderei tra le sue braccia.
Non che non abbia visto Dio anche altrove, in uno spettacolo inaspettato che mi ha rapito, in una musica intensa e sublime che mi ha inondato, allargato e ha preso possesso di me. Ma le sue braccia erano un’altra cosa.
La sua pelle.
La prima volta che lo accarezzai, abbracciati, al buio, le mie mani creavano forma. In quel momento non avrei avuto idea di che forma avesse il suo corpo. Per le mie mani era una forma bellissima, la cosa più bella che avessero mai toccato, plasmato, assaporato. Era la bellezza che sentivano e gridavano loro, cieca, totale, la meraviglia assoluta di un viaggio senza limiti e confini.
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La prima volta che che lo vidi
La prima volta che ci incontrammo, per caso, presso un amico in comune, mi fu completamente indifferente. Scambiai due parole, e per gentilezza lo salutai. L’unica cosa che pensai fu: “Almeno ha un buon odore.”
E il pensiero non mi sconvolse certo.
La seconda volta che ci incontrammo, per mia curiosità, per la scimmia di conoscerlo perché sembrava un tipo normale ma non lo era, l’unica cosa che pensai fu: “Almeno mi ha portato in un posto carino.”
Vabbè, buon per lui che nel complesso non era normale ma non era certo neanche niente di speciale.
Ma poi uscendo dal locale, mentre facevamo quattro passi per raggiungere la macchina, pensai: “Ecco non ce la farò neanche sta volta. Sarà come l’ultima volta. Come tutte le volte. Passeggeremo. Passeggeremo. E non faremo niente.”
L’ “ultima volta”, per la cronaca, erano i miei 14 anni. Ero rimasta ferma lì, a quel piano sequenza che girava in loop.
Ma questa volta lui aveva deciso. Io avevo deciso. E le decisioni combaciavano. Con coraggio sufficiente.
Così qualche incontro dopo scegliemmo di non resisterci.
Anche le sue mani erano bellissime.
La pelle delle sue dita aveva un magnetismo talmente denso che attraversarlo per toccarla fu approdare a una nuova riva, a un nuovo continente, fu una coloratissima immersione subacquea dalla quale non riemersi più.
Non potevo sbagliare, non potevo dubitare, c’era una direzione sola, quella. Lì volevo andare. Senza alcuna ragione. Lì si affacciava senza fiato il mio senso di meraviglia.

Diverso tempo dopo successe una cosa incredibile. O forse normale. Fare l’amore mi scosse, fece tremare gli strati e strati delle mie emozioni congestionate, incrostate, ossidate, li smosse, li scalzò, li ribaltò. Forse non ero mai stata meglio. Forse proprio per questo dovevo lasciare andare qualcosa del mio dolore. Gli chiesi se potevo piangere. Gli diedi le istruzioni. Era un momento molto delicato, rischioso, e lo sapevo. Doveva stare fermo. Io sarei stata nelle sue braccia.
E piansi.
E poi smisi di piangere.
E solo qualche settimana più tardi mi accorsi della grandezza del momento, della grandezza del mio e del suo gesto, mi accorsi del potere della sua accoglienza e del mio abbandono, del potere della sua forza e del suo amore senza il quale non sarebbe mai potuto avvenire un momento del genere.
Non era un momento da poco considerando che all’inizio lo chiamavo Goebbles e la notte quando avevo gli incubi non si poteva avvicinare perché i miei incubi crescevano.
E mi accorsi che all’improvviso si era realizzato un desiderio che per anni o forse decenni mi ero ripetuta, come un mantra, ogni sera prima di addormentarmi, fino a qualche anno prima, che volevo un uomo nelle cui braccia riposare, nelle cui braccia piangere.
Anche i più terribili bisogni possono essere assolti solo quando la loro urgenza si smorza.
E ora ero improvvisamente oltre quel bisogno. Oltre la paura.
Ero dentro un abbraccio che mi conteneva.

Ero a fianco a un uomo con il quale stavo bene.
Mi dirai, normale. Normale un cazzo.
Ma se questo per le persone normali è normale. Ci sto. Mi va bene una storia normale, in cui semplicemente si sta bene.
Successe altre volte, in seguito.
Non che piansi. Ma che traboccai. Ma avvenne anche in silenzio. Tra parole dolcissime. Tra gocce di sudore. Ma senza più lacrime.
Sentivo il cuore che ospitava una marea sempre più vasta. Che quasi traboccava. Che ondeggiava all’orlo, spumosa, densa, dolce. Forse sarebbe traboccata in lacrime. Ma aveva spazio. Ormai io avevo spazio.
Grazie a lui, a me, a noi, a poco a poco, ero cresciuta in ampiezza.
Ero cresciuta in fiducia, in piacere, in amore. Potevo permettermi tutto quello spazio.
Ero inondata dall’emozione. Un vaso di cristallo. L’emozione riempiva il cuore, lambiva la gola e le orecchie. Mi dilatava. Eppure non mi faceva male. Ero trasparente. L’emozione stava lì. Come una cosa bella.
Sono emozionata. Dissi.
Anch’io. Disse.
Sentiva ciò che sentivo io. Sicuramente lo aveva sentito. Eravamo stati una cosa sola. La percezione è oltre ogni dubbio. Non si è solo due corpi incastrati. Si è energie mischiate, fuse. I confini sfumano, poi si cancellano.
Nessuno dei due si aspettava ciò che era accaduto.
Nessuno dei due si era mai aspettato di incontrarsi, di fare l’amore, che fare l’amore sarebbe stato così. Nessuno dei due aveva mai neanche sognato, a occhi chiusi o a occhi aperti, l’altro, prima di trovarselo davanti. E dentro.
Quando quella notte mi abbracciò, il suo peso su di me aveva un sapore tutto particolare, come non avevo mai sentito prima, prima con lui e prima in vita mia, un sapore delicato e delizioso, un abbandono fiducioso, intimo, leggero e profondo. Seppi che non mi avrebbe mai lasciato. Se c’erano state delle tensioni e delle incertezze tra noi, quello era un passo che avevamo fatto senza sforzo, senza prevederlo e senza saperlo, naturalmente. Era accaduto. Ed era un passo oltre. Ed era un passo verso. Verso di noi.

Fu così che scoprii invece che Dio non a tutti è simpatico, che, per tutti, è sempre una presenza scomoda.
Io, personalmente, incontrai Dio, tra le sue braccia, e, ancora una volta, lo lasciai andare, per la sua strada. Dio torna sempre. Ha sempre accesso attraverso i miei sensi e il mio cuore. Che sia l’amore struggente per una città o per una foresta. Le vibrazioni, le note cambiano, io sono sempre pronta. No, non è vero niente che sono pronta, che sono aperta. Io sono lì. Sono davanti e dentro all’orchestra, a questo respiro di Bellezza più grande e più forte di me che mi compenetra. E ho paura. Paura di essere presa e posseduta, straziata. Sono inerme. Tento di chiudermi a volte. Ma non posso fare a meno di sentire, di esserci.
L’energia penetra dentro e si amplifica.
Quella volta eravamo in due a essere amplificati, doppiamente amplificati. Non eravamo preparati. E non eravamo pronti. E non eravamo in grado. L’intensità può bruciare i condotti del sistema nervoso, dà la scossa. Non puoi sapere come reagirai quando te la troverai davanti, dentro. Non puoi sapere se la reggerai o quanto a lungo la reggerai. Come sentirai in te la sua ammaliante, avvolgente, paziente dolcezza, la pesantezza della sua leggerezza.
Non puoi realmente sapere se l’amore può crescere nel divertimento così come è nato, ridendo tra un inciampo e l’altro, andando a sbattere contro ogni angolo dell’ignoto, oppure se non è in grado di camminare neanche carponi e resta col culo per terra.
Non puoi saperlo. Ma puoi farlo.
Vogliamo solo essere felici.
Vogliamo solo farci felici.
Incontrarci. E resistere nella Bellezza. Nella Normalità (o quasi).
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3 Comments
Bellissima!
sì, ;) :) <3 :)
Meravigliaaa! Grazie infinite per i tuoi scritti.
Un abbraccio.
ANNALISA