Paolo Bianchi è sempre più lontano. È fuori. Non deve piacere a nessuno. Non solo è politicamente scorretto a ogni pagina. È antipatico. È fuori. Osserva scomodo, a disagio. Eppure con la vita si sporca le mani, si struscia, la corteggia con affannosa avidità. È fuori. Una voce unica. Che serviva.
Intanto, diciamolo, la sua sensibilità umana e artistica gli permettono di scrivere romanzi sempre più notevoli. Per uno scrittore di circa 50 anni è preoccupante. Rischiamo di sapere di lui ancora a lungo.
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Ma anche non fosse il suo libro più compiuto e maturo, “Donne smarrite uomini ribelli” (edito da Cairo e disponibile su Amazon in copertina flessibile) è un libro molto bello. Ha una perfetta coerenza di stile, di senso, di struttura.
E già questo lo rende un oggetto di spicco nel panorama della narrativa italiana contemporanea, dove secondo me nessuno è in grado di mettere sul tavolo un tale tris di assi. La struttura narrativa è solitamente sapiente, lo stile ingenuo, il senso conformista.
Qui no. Qui si padroneggia la realtà e l’arte e le si fa esplodere e le si ricuce in modi nuovi. Questa è la vera ribellione del libro. Si rivolta la realtà come un calzino. O un intestino. E non ci piace. Non piace né allo scrittore né al lettore. Nella mia esperienza, in due punti la nausea della verità era talmente insopportabile da chiudere il libro. In molte altre parti la scrittura afferra per le palle o per la pancia o anche per la figa e scuote, rivela, rivolta.
“Rivolta” è il cognome del protagonista. Lui appartiene a quella razza lì. Una razza inquieta. Distruttiva, costruttiva, rassegnata, vorace, disillusa, alla ricerca della Verità. Mite. Però mite. “Emilio” è il suo nome di battesimo. Il compromesso è fatto. La frattura della sua vita, la distanza tra lui e sé, è dichiarata.
Una rivolta smarrita. Smarrimento dentro se stessi e dentro al mondo.
Paolo Bianchi non salva più niente. La scrittura è asciutta, un gioiello di semplicità, poesia, bellezza, crudezza. Sacra spietatezza. È smaltita la pietas che aveva ingombrato tutti i suoi precedenti romanzi, non ce n’è (quasi) più traccia. Che liberazione! Che almeno la scrittura non abbia compromessi. Resta una aggressività pacata, chirurgica. Resta amarezza, una amarezza da ubriacatura, da stordimento, da smarrimento, ma mai autocompiaciuta. L’autore non assolve nessuno (o quasi). Tanto meno se stesso.
Non si risparmia. Parla di dolore vero e di teatrini dell’assurdo. Ma questo è l’atroce paradosso delle relazioni umane. Almeno oggi. Almeno in Italia, almeno nella Città Grande.
Tutti i suoi personaggi sono molto più che “interdetti all’amore” come l’eroe tragico di Cent’anni di Solitudine di Marquez. Sono interdetti alla verità, alla semplicità, e, molto peggio, alla spontaneità. Non riescono a sentire e, tanto meno, a comunicare emozioni che non siano “convenienti”, conformiste o ruffiane. Sono manipolatori, obliqui e violenti, carcerieri e prigionieri. Mai chiari né con gli altri né con se stessi.
Inconsapevoli degli isterismi collettivi a cui aderiscono. Incapsulati in ruoli sociali tanto normali quanto ridicoli.
Se non fosse così irritante, urticante, il romanzo sarebbe ironico, e anche comico. Invece è solo scomodo. Scorre via veloce, inarrestabile, come la vita, e colpisce preciso, come la vita. Avvincente, attraente. Eppure repellente.
Le donne sono smarrite perché lo è la voce narrante nell’osservarle. Smarrita. Non ci capisce niente. E meno capisce più ne è attratto, avvinto. Eppure sono respingenti.
Sembra che universo maschile e universo femminile siano semplicemente incomunicabili. Forse entrambi troppo egoisti.
Forse l’universo femminile è un po’ più nobile, quando lo è. In tal caso, le donne sono regine senza regno: non esiste niente al mondo che sia adatto a loro. Belle brave intelligenti sole, inutili.
Illuse ma neanche troppo.
E gli uomini sono ribelli. Homme revolté alla Camus, “mi rivolto dunque siamo”. Ma senza nulla da costruire, senza una terra dove andare, una lotta personale o collettiva per cui stare.
Conservatori per sopravvivenza.
C’è solo vitalità, una vitalità confusa. C’è solo Vita. Ma una vita che non si sa gestire. Che fa male. Perché dove non c’è amore, c’è violenza.
Un carnevale di piccole, brutte cose.
Paolo Bianchi non salva più niente. Solo il nulla, la distruzione totale, lo salverà.
L’ultimo capitolo è scritto al futuro, le ultime righe sono cupe, viola e tonanti per un temporale elettrico. E sono pregne di luminosa speranza. L’apocalisse ci salverà. La caduta di tutte le maschere. La dissoluzione dei giochi.
All’essenza della vita arrivarci toccandole, con mano, le ossa, lo scheletro.
Sbarellare tutte le perversioni della mente e del cuore e del sesso, andando molto al di là. Al di là della solitudine, al di là della vita, al di là della morte.
Per rinascere, il solo modo è morire. Per ripartire da zero, il solo modo è essere nudi, coglioni così come si è ma semplici, autentici, essenziali, liberi, teneri, veri. L’ego si spacca. Resta il mistero della vita.
E noi Vita vogliamo.
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