Cara Cenerentola,
Da noi sei conosciuta come una maga e mi hai sempre fatto una certa soggezione, così bella e potente. Ho sempre evitato di pensare di essere come te o anche di confrontarmi con te. Sai fare incantesimi, hai avuto successo e l’hai avuto proprio grazie alle tue capacità, capacità non da poco e misteriose.
Ho sempre preferito sentirmi Biancaneve, una eterna bambina che ne sbaglia una dietro l’altra e poi quando raggiunge il colmo degli errori cade in trance e sogna il Principe (o l’incontra davvero? per buon karma. che si dice dalle tue parti?)
Adesso non posso più ignorarti perché improvvisamente mi sono trovata ad essere come te. Il Destino, la necessità, mi ha portato, mi ha forzato, per 21 giorni, una reale iniziazione, a soffrire il freddo in una dependance della servitù, badare a tutta la casa, creare e custodire il fuoco tutti i giorni, parlare con topi e ragni, con una terribile compagna. Ne sono uscita. Ma non sono ancora Principessa né Regina. Sono ben lungi. Ti scrivo perché a questo punto non posso evitare di cercarti, mi piacerebbe tanto conoscerti e vorrei tanto sapere come tu hai fatto. Non ho potuto evitare di cercarti ora. Ora che sono come te. Nella parte cattiva. Io ho sofferto tanto. E voglio approfittarne per imparare al massimo. Ed entrare nella parte buona della favola.
Cara Silvia,
Mi fa piacere che ti interessi alla mia storia. È vero sai, ogni avventura sembra più grande di noi ed è, di fatto, più grande di noi. Altrimenti che avventura sarebbe. Prima di entrarvi ci spaventa. Ci ripugna. Lo sappiamo bene che non saremo in grado di attraversarla e oltrepassarla. A volte arriva come una sorpresa. Noi non la cercheremmo né l’accetteremmo mai. Ma la nostra anima è esigente. Vuole crescere. Vuole essere più grande. Vuole sfide impossibili. Non sa superarle. Sbaglia, impara. Cade, impara a camminare, a muoversi. Improvvisa. Affina i sensi, l’attenzione, la creatività, l’intelligenza. In qualche modo ne esce. Non era preparata. Ora è una persona nuova.
Ne esce un po’ acciaccata magari. Ma molto più grande e forte.
Così funziona.
Sei stata molto fortunata, mia cara Silvia. Ora sei una donna diversa. Sei una Donna, con la D maiuscola. Con o senza titolo nobiliare.
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Anche io ho sofferto tanto. Si cerca sempre di evitare la sofferenza. È sano evitarla. Non siamo mica dei perversi masochisti. Eppure la sofferenza non solo è parte del gioco, un rischio incluso nel Vivere e la prova che si sta vivendo davvero. È anche parte dell’energia vitale, motore di rivelazione, concentrazione, motivazione, fortificazione, sbandamento e centratura. È fondamentale per crescere, per sognare, per cambiare.
Nessuno che abbia mai attraversato prove piccole è mai diventato grande. Nessuno che abbia mai avuto vita facile si è mai posto domande e ha mai imparato o creato qualcosa, tanto meno qualcosa di buono o di bello, o eccellente o entusiasmante.
Per andare oltre ci vuole un limite, un limite da superare, un tabù da rompere, un blocco da forzare, una situazione non più tollerabile. Più è invalicabile il limite più sono necessari Talento e Forza.

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Ah credimi, cara Silvia, come tutti, non sono nata imparata. Non avevo né talento né forza.
Sono stata nella disperazione tempo interminabile. Non avevo nulla. Ho pregato di avere forza e talenti. La disperazione mi è servita. Non avevo nulla. Ho deciso che volevo uscirne. La disperazione era totale e oggettiva e non a termine. Così è spesso nella vita. L’umiliazione, la castrazione non mollano. Spesso ci si abitua, ci si rassegna, si sopporta. Ma arriva un momento, un benedetto momento, che non si sopporta più. Ci si guarda allo specchio e ci si chiede: Ma sono davvero io questa? È vita questo orrore? Me lo merito? Davvero non posso fare di meglio, aspirare a qualcosa di meglio?
E questo è solo l’inizio, la vita sembra ed è infinita davanti, tanto quanto infinita è la disperazione.
Ma io avevo qualcosa, qualcosa ce l’avevo. Qualcosa che hanno tutti, tutti quelli che nascono su questa terra. Avevo una mamma. Non la mamma che tutti conoscono, che si è fatta ben notare in quanto matrigna cattiva, in ogni versione della mia storia. Avevo una Mamma vera. Originaria. L’amore che mi ha creato, come ha creato anche te. Anche se non lo sai. Anche se questo amore ti è arrivato per vie distorte strette tormentate e faticose. Ma l’amore c’è, c’è sempre. Altrimenti non saresti in vita. Altrimenti non saresti qui, con la curiosità e il coraggio, e l’ardente voglia e l’urgenza di leggere la mia testimonianza e di imparare, imparare davvero, finalmente, ad essere Regina, a sentirti tale e a manifestarti come tale.

Io la mia Mamma, la mia mamma biologica che era andata in Cielo, la amavo. O forse amavo Dio Creatore e la Natura, la Bellezza, e la Potenza che mi circondava e abbracciava ogni giorno, appena fuori dal mio tugurio. O forse amavo il mio ricordo o il mio desiderio della mia mamma. Amavo l’amore che sentivo, che non potevo impedirmi di sentire. Non so dirtelo. So che l’amore era vero e quando mi concedevo di sentirlo mi scioglievo in torrenti di lacrime che erano sì dolore ma anche estasi, erano sì sfinimento ma anche forza. Ecco, forse io mi sentivo benedetta. Alcuni, tra cui i ben noti fratelli Grimm, raccontano che mamma prima di morire mi benedì. Ma io ero troppo piccola e non posso dire con certezza. Ma so che benedetta mi sentivo. E le lacrime che sgorgavano a fiotti erano anche di gratitudine per l’esistenza, questa meravigliosa, misteriosa e apparentemente ingrata esistenza, questa esistenza tanto dura e ingestibile, che mi era stata data e che avevo l’opportunità di attraversare. Doveva esserci della magia in questa esistenza dove c’era anche tanta Bellezza e Potenza. Doveva esserci anche qualcosa per me! Dovevo essere in grado di raggiungerlo!
Ecco che cosa avevo, avevo fede, una fede profonda, radicata e incrollabile, prodotta dal mio sentire più intimo.
Gli anni passavano e nulla cambiava. Tutto era contro di me. Ma io non mi sentivo sola. Non mi sentivo abbandonata. Ero connessa. Nessuno sapeva amarmi, né chi mi voleva male né chi mi voleva bene. Quante volte capita, ahimè! Quante volte anche tu che leggi ti sei trovata (o trovato) nella mia situazione. Ma io sapevo che dentro di me circolava una Forza di Amore. Fu questo sai che mi fece crescere, per prima cosa. Questa luce ostinata che mi percorreva dentro mi impediva di sporcarmi, di corrompermi l’anima macchiandomi delle debolezze e delle cattiverie che manifestava la maggior parte delle persone intorno a me. Oh quante volte ho sentito odio dentro! Quante volte schifo o orrore… Ma ti giuro non ho mai fatto del male a nessuno. Io non ero nata per fare del male. Era in gran parte inconsapevole questa cosa. Fu il mio istinto luminoso a salvarmi la pelle, o a salvarmi il karma come dite oggi. E intanto questa luce di pura e semplice vita circolava in me e mi nutriva. Non solo mi permetteva di percepire Bellezza e di sognare Bellezza e desiderare Bellezza. Ma apriva i miei sensi a tutto quanto mi circondava. Di quanta gioia palpitava l’Universo. Quanto soffrivo delle cose brutte. Quanto soffrivo del dolore e dei cattivi sentimenti che sentivo in me e negli altri, malattie mortali che sembravano inestirpabili. Ma quanto tutti i miei sensi, fisici e sottili si affinavano, per necessità di sopravvivenza ma anche grazie allo Spirito, al mio Io Spirituale, che mi sosteneva, che sapeva già tutto, oltre il tempo e lo spazio, anche se io non sapevo niente, anche se Io credevo di non potere niente…
Di fatto non avevo niente da perdere.
E così una mattina, quando mio padre ci salutò per uno dei suoi viaggi di lavoro buttai lì come un gioco: Portami quel ramoscello che al tuo ritorno ti colpirà il capo e ti farà cadere il cappello. Lo dissi come un incantesimo o una filastrocca, come un gioco.
Lui me lo portò.
Successe davvero, un ramoscello davvero lo colpì e gli fece cadere il cappello.
Ed era un ramoscello di un albero di nocciolo. Che dono meraviglioso! Come sai, come io scoprii in seguito, il nocciolo porta in sé l’energia di Mercurio, l’alato mercurio della comunicazione tra sé e sé, tra sé e il mondo, tra sé e i mondi invisibili.
Non volevo gioielli, come le sorellastre, non sapevo che farmene, non avrei potuto farmene nulla. Volevo magia! Avevo bisogno di qualcosa di veramente forte e potente, che facesse la differenza. La vita risponde quando si gioca e si osa, quando si osa con audacia e leggerezza.
E adesso che me ne faccio? Pensai. E, appena potei, andai da mamma. E glielo portai. Non sapevo che farmene ma era un bel rametto. Lo piantai sulla sua tomba. Le cose preziose si nascondono bene nei luoghi più visibili. Nessuno le riconosce. E io potevo vederlo bene. Era bellissimo, un dono per il mio cuore. Un segno del Cielo.
Non potevo sapere che di nocciolo appunto sono fatte le bacchette magiche e che prerogativa delle bacchette magiche è essere ponte, antenna tra Cielo e Terra.

Ma il mio rametto fu molto di più.
Negli anni, per magia evidentemente, per l’amore con il quale lo annaffiavo attraverso le mie lacrime, mentre io continuavo a sopportare le sofferenze che il mio destino aveva in serbo per me lui crebbe e si fece albero.
Fu uno spettacolo mirabile, miracoloso, incantevole, un incantesimo.
Dal momento che io vi andavo, appena potevo, a rifugiarmici e pregare, il luogo fu presto notato dalla fauna del luogo. C’era una energia particolare. Gli uccellini accompagnavano le mie preghiere silenziose con il loro canto. Ogni tanto portavo loro delle briciole. Diventammo amici. Da me e solo da me si facevano perfino accarezzare. Mi volevano bene. Ma alle sorellastre cosa importava. Loro avevano le loro ambizioni mondane a cui pensare, pettegolezzi e invidie da coltivare, non avevano spazio per l’amicizia. E non erano certo invidiose di me che si premuravano di tenere sempre indaffaratissima, lurida e stracciona. Non potevano certo immaginare che io avevo amici.
E invece proprio così era. Io mi sentivo sempre meno sola. Ed ero sempre meno sola. Avevo l’amore dentro e l’amore mi veniva incontro anche da fuori. Anche se ero tanto brutta e sporca. Ah, lo vedevo. Rifuggivo gli specchi ma lo sapevo. Ma forse non ero così infame se tante creature mi volevano bene, se la natura, tutto il creato, sembrava sorridermi e rispondermi.
Per questo quando raggiungemmo l’età per andare al ballo, il debutto in società, io ebbi lo sciocco, assurdo, ardire di sognare di andarci anche io. Fu un brutto momento, lo ricordo ancora bene. Lo chiesi direttamente alla matrigna. E lei mi guardò con disprezzo: Tu vuoi andare in società!? Ma io mi vergogno di te! TU non puoi.
TRE NO. Non potevo. Non andavo bene. Questo mi stava dicendo. 1) Non potevo ardire di sperare di fare parte del consesso sociale, avere un posto nel mondo. 2) Perfino nel piccolo mondo della mia famiglia ci si vergognava di me, non avevo diritto di esistenza. 3) Io in quanto io, non solo nel mondo, nel mondo della mia famiglia, non potevo essere, non potevo farmi vedere, non potevo rivelarmi, esprimermi. Ero sbagliata, ero troppo, ero ingombrante, non lo so. Ma il mio, il mio posto era stare nascosta, invisibile, coperta da cenere e sporcizia.
Cenere, capisci? Eh già, come quelle Donne che furono streghe o per meglio dire semplicemente donne, semplicemente se stesse, connesse con se stesse, e sono ricordate per essere cenere: la società le scoprì e le eliminò, di loro fece roghi e di loro restò solo cenere.
Così io ero. Non avevo neanche un nome. Ero una cenerentola, una pugno di cenere. E così dovevo restare.
Altro che maga, altro che strega. È questo il nostro Destino!?
All’inizio mi parve perfino normale. La mia vita non mi aveva già mostrato quale era il Destino per me? Come avrebbe mai potuto cambiare? Mi resi conto e accettai che non sarebbe mai cambiato. E dalla rabbia piansi e gridai, appoggiata all’albero di nocciolo, sulla tomba della mia mamma. Mi accasciai infine sulle sue radici stremata e affranta. E mi addormentai. Solo il freddo, con la sua a me ben nota crudezza, mi risvegliò. Era il crepuscolo. Gli uccellini cantavano. Si lanciavano nel cielo a stormi. Passavano da un albero all’altro. Erano meravigliosi da guardare, travolgenti. E che suono poi, che sinfonia, che concerto, che stordimento! Un uccellino mi percepì sveglia e venne a salutarmi. E io piansi ancora, questa volta di commozione, di dolcezza. Il mio cuore era vivo, palpitava, desiderava, voleva, esigeva restare vivo. Aveva fame di vita, sete di vita. Lo dovevo alla mia mamma, a chi mi amava, agli uccellini, alla Bellezza, a me, a tutto lo Spirito visibile e invisibile, che mi circondava, che mi compenetrava. Avevo diritto e dovere di Vivere. Non potevo più negarmelo. La vita fremeva in me. Era il momento della pubertà, capisci bene, gli ormoni si muovono. C’è da scoppiare. I topolini con la loro indecente, furtiva, malizia, mi facevano ridere. Non avevano paura di me né io di loro. Sembrava mi corteggiassero. Voi pensate che gli animali nelle storie siano simboli e rappresentino gli istinti e il sesso. Ma rappresentano questo anche nella realtà! Tutto il creato è sesso ed energia vitale, e freme, caccia, celebra. Non è un caso che nelle vostre lingue spesso avete dato agli organi genitali nomignoli di animali. Avete bisogno della loro benedizione, della loro ispirazione, della loro guida.
Comunque io mi alzai e allora decisi che al ballo ci sarei andata. Non avevo idea di come.
In un modo o nell’altro.
TO BE CONTINUED…
Qui trovi la seconda parte: Cara Cenerentola, dimmi come hai fatto (Parte 2)
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