La piccola zarina voleva fondare il suo Impero. Già lo sentiva, lo aveva tra le mani.
Era un territorio pieno di luci colorate e ospiti bizzarri di magie pirotecniche botaniche e animiche.
Gli esseri umani ballavano con gli orsi e le volpi e creavano storie e abiti di scena.
C’era chi parlava solo in rima chi preferiva il silenzio chi era dissenziente chi si dedicava al ricamo in diverse lingue straniere. Tutte i linguaggi erano possibili.
Turchi e Francesi, Cechi e Russi, Italiani e Argentini… tutti i popoli si amavano con tutti, in amicizia, in esultanza, in pace. Era un mondo di estasi gioiosa.
La piccola zarina aveva creato tutto ciò, con la sola imposizione del pensiero, senza neanche proferir parola. Era la condensa del suo fiato colorato. Sua emanazione e parte di lei. Il suo Grande Impero di Arte Mobile e Immobile, una civiltà di libero scambio, esentasse, dove l’unico gestore era il Moto Sintonico dell’Universo, ente di giustizia suprema.
La zarina faceva arte, canto e biscotti. La gente la guardava ascoltava assaggiava ed era felice. La piccola zarina non aveva bisogno di niente. Nel suo Impero le cose fluivano come acqua, si accendevano come fuoco, erano pervasive vaste e connesse come l’aria e consistenti come l’etere. Lei era la prima e l’ultima, a seconda delle danze, era l’Imperatrice, colei che reggeva tutto con la forza e la vastità del suo cuore, la maga dai capelli più lunghi mossi folti forti e rossi e dai servizi da tè più esotici e preziosi.
E questo è quanto.
E un bel giorno un uccellino le disse che l’Universo le avrebbe mandato una raccomandata, una di quelle che non avrebbe potuto fare finta di non ricevere.
Lei non poteva più giocare e fare felice le persone, non poteva più imparare e creare giochi sempre più belli.
All’improvviso venne il momento. L’incantesimo si ruppe. L’Impero vacillò. L’Universo, che la teneva su di un palmo di mano, le aveva chiesto di entrare dentro a un anello, un cerchietto d’oro di quelli da anulare.
Lei rispose: “Non fa per me. È troppo stretto. Mi stritolerà le ossa. Poi sangue ovunque. Non se ne parla.”
Allora iniziarono le contrattazioni. L’Universo lanciò: “Se riesci ti regaliamo un osso.” La zarina, offesa, sgranò gli occhi, incredula e anche un po’ schifata.
“Ti regaliamo due ossa!” rilanciò l’Universo.
“Tre ossa.” rilanciò l’Universo.
Fece una pausa. La zarina lo fissava coi suoi occhi umidi dalla paura e si chiedeva se fossero tutte qua le tanto declamate abilità aritmetiche di chi sta al potere.
“Una Spina Dorsale!” Tuonò infine l’Universo.
“Piuttosto una Spina di Pesce!” Lei propose di diventare sirena.
Affare fatto.
Così si buttò dentro all’anello con un sol colpo di coda sulla cresta di un’onda di oceano. Si sfracassò tutta. Sangue ovunque.
Fine della storia. Morta lì.
La zarina vagò per mari e per monti. Sangue ovunque. A volte blu. Il più delle volte solo rosso.
Nessuno la riconosceva da quella parte di mondo, oltre l’anello. Lei era sempre più stanca e brutta. Nessuno voleva sentirla cantare o parlare di Meraviglie. Lei del resto sapeva che le Meraviglie esistevano ma non ne poteva più parlare perché non se ne ricordava più. Era così, era un mondo stretto, pieno di cose brutte e ingiuste, e ci si dimenticava facilmente.

Doveva essere piccola piccola. Doveva guadagnare in densità e compattezza, coerenza e agilità.
Alla zarina usciva sangue anche dalla bocca e dagli occhi lacrime blu e verdi come le code dei pavoni e le pietre labradoriti. Dalle lacrime lei aveva la certezza di essere zarina. Cadevano come diamanti. Ma quando rimbalzavano a terra e lei cercava di raccoglierle loro scoppiavano come bolle di sapone.
Ogni tanto andava al mare. Quel posto la confortava: aveva più lacrime di quante ne potesse mai piangere lei. Erano diverse dalle sue ma anche queste presentavano tutte le sfumature di blu e di verde. Riprese a sognare, senza dirlo a nessuno.
Guardava e ringraziava perché sapeva che il Mare ha orecchie ed è un tipo sensibile e a lei piaceva mantenere buoni rapporti. A volte chiedeva pure qualcosa per sé ma sapeva che il Mare non ha mani e poco avrebbe potuto fare. Doveva far lei. Ma questa immensità le dava un po’ di ossigeno e lei ricominciava a vagare per mari e monti.
Fu un tempo molto lungo che sembrava sempre uguale ma che uguale non era.
Lei si era davvero densificata. Il buio era buissimo, la luce era solida e compatta. Qualcuno che la avesse osservata bene avrebbe potuto capire come i diamanti si producono in natura e apprezzare lo sforzo di coerenza e allineamento della piccola zarina. Ma pochi avevano occhi per vedere oltre che mani per prendere. E lei non faceva più mangiare i suoi biscotti ma permetteva che mangiassero lei. Nel suo buio buissimo, lei faceva ancora fatica a vedere.
FINE PRIMA PARTE.
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Sei fantastica Silvia, complimenti!